giovedì 24 dicembre 2009
VINCENZO CARLOMAGNO: inaugurazione della mostra "alle origini del paesaggio"
domenica 6 dicembre 2009
VINCENZO CARLOMAGNO
Alle origini del paesaggio
Silvia Ferrari
Natura, spazio, colore: questo il lessico primario dei paesaggi di Vincenzo Carlomagno, gli elementi minimi declinati in infinite varianti, ognuna capace di esprimere una suggestione sempre diversa, un nuovo racconto, una visione continuamente mutata di quel rapporto spirituale esistente tra l'uomo e la natura.
La serie di paesaggi presentati oggi appartiene a un corpus di opere su carta di piccolo formato, realizzate tra il 1997 e il 2005, un periodo relativamente lungo se si considera la qualità eclettica del lavoro dell'autore, come a indicare una stagione particolarmente intensa del suo percorso e forse il nodo più problematico in cui evidentemente temi e motivi formali hanno trovato pieno sviluppo in una riflessione insistita e profonda, talvolta con esiti di distesa armonia, talvolta con accenti più drammatici.
Di fronte alle vedute sconfinate, estreme e prive di ogni elemento che non sia l'orizzonte, la terra e il cielo; di fronte allo sguardo assoluto e totalizzante su un mondo che nel mutare delle condizioni e dei colori pare racchiudere il mistero dell'esistenza, si è testimoni silenziosi del dispiegarsi di uno scambio puro e diretto tra sentimento e natura, del rapporto contemplativo tra l'animo umano e l'intima essenza del mondo.
Nell'estrema semplificazione dell'immagine, così come nella riduzione della rappresentazione a un'essenziale equilibrio tra composizione e valori cromatici, è ravvisabile non soltanto una visione virginale del paesaggio, ma anche una stretta corrispondenza tra emotività del soggetto e la parvenza esterna della natura. Un paesaggio al limite, quindi, luogo di una soggettività assoluta, dove è portato all'estremo il confine tra visione naturale e visione immaginaria.
La pittura diviene così condizione ideale per sperimentare e verificare il concetto stesso di paesaggio ancor prima del manifestarsi dell'immagine, soprattutto nella sua essenza di "spazio che si costituisce oggetto di esperienza estetica e soggetto di giudizio estetico", come viene definito da Rosario Assunto nel libro Il paesaggio e l'estetica, dove si deduce che "il paesaggio è spazio, ma non soltanto spazio. [...] E' più che spazio soltanto". Se è vero che nelle opere di Carlomagno il senso dello spazio ha un valore fondante non solo in ambito formale, ma anche e soprattutto concettuale, è altrettanto vero che è in quel più che va ricercato il senso più profondo della sua personale interpretazione del paesaggio, un senso che si spiega nella disposizione dell'autore a proiettare fuori di sé, sugli aspetti del mondo naturale, il proprio io fino a tradurre la natura stessa in un grandioso scenario esistenziale dei propri paesaggi interiori.
Ecco allora come il rigore compositivo, che affida alla linea dell'orizzonte l'organizzazione visuale dello spazio, solidamente strutturato tra alto e basso, arriva a privarsi di quasi ogni appiglio visuale per l'occhio per disegnare distanze non misurabili, come a dire di una natura inconoscibile, oggetto di un confronto ineluttabile che può divenire minaccioso, oscuro e perturbante, laddove espliciti segni annunciano tale intonazione emotiva; così appaiono le sagome nere dei rari arbusti o degli alberi dalle chiome dense e disegnate come vortici di materia, che gettano altrettante ombre sul terreno come anime inquiete; o le colonne di fumo grigio che salgono da un punto indefinito in lontananza, forze premonitrici di infausti eventi; o i cieli addensati di nubi livide rese impetuose da un gesto pittorico irruente; o, infine, i campi incolti arruffati da grovigli di segni a pastello sconvolti da spinte invisibili.
La capacità evocativa viene qui conferita all'organizzazione tonale e all'intensità gestuale e materica della pittura; la pennellata energica, rapida e densa si sovrappone al rigore della scansione spaziale dell'immagine, interrompendo il nitore dell'architettura visuale e lasciando all'esperienza del colore, di quei "colori affaticati dal tempo", pura libertà espressiva fino a giungere ad esiti di estrema astrazione formale. La stessa libertà espressiva, lo stesso procedere per assenza di struttura narrativa, la stessa trasgressione dei codici imitativi che si ritrovano nei versi poetici che accompagnano la ricerca visiva dell'autore, una consonanza linguistica tra pittura e poesia che si avvale dei medesimi intendimenti formali.
Ma questa totale adesione al sentimento della natura sa restituire anche significati di un'affettività più serena, dove l'uomo sembra ricostituire un rapporto misurato, di calma meditazione; così appare con maggiore evidenza nelle opere dove prevale un'accentuazione della costruzione prospettica dello spazio, quando, cioè, la struttura spaziale dell'immagine si impone alla forza del colore e si preoccupa di costruire piani digradanti per creare una profondità. In tali esempi si fa più nitida la definizione della forma, mentre il colore e la pennellata assumono un tono certamente meno drammatico, per generare una dimensione di più classica, pacata armonia.
Di altra intonazione i paesaggi, parte di un gruppo di opere a pastello, caratterizzati da toni vivaci e contrastanti e dal segno deciso e veloce: particolari di tronchi nodosi, vedute di spiagge, litorali lontani, vegetazioni marine e lingue di terra viste attraverso l'impedimento in primo piano di parvenze di sottili fusti di alberi, canneti che dividono la superficie cartacea in campi consecutivi secondo cadenze ritmiche solo apparentemente casuali che conferiscono alle immagini inconsuete soluzioni visive.
L'aspetto contemplativo e riflessivo è all'origine della ricerca sul paesaggio di Carlomagno; in particolare il generare quella linea d'orizzonte, il separare il campo visivo con quella retta che definisce per sempre ciò che è cielo e ciò che è terra non può prescindere dalle speculazioni filosofiche sull'infinito e sulla limitatezza. Il paesaggio è sì uno spazio limitato, ciò che viene scelto dallo sguardo perché adatto a ritrarsi in pittura, riportato nel campo definito e chiuso del quadro; ma è anche uno spazio aperto sull'infinito; è, cioè, come ancora sottolinea Rosario Assunto, "presenza dell'infinito nel finito". Se infatti il cielo in sé non può essere considerato paesaggio, la sua presenza all'interno dell'opera contribuisce a definire il paesaggio stesso. Giacomo Leopardi ha parlato dell'infinito in un paesaggio limitato dalla presenza di una siepe, mettendo in evidenza la centralità del limite. L'orizzonte delinea quel limite, aprendo lo spazio all'infinità del pensiero, uno spazio che, si noterà, non è mai vuoto, bensì denso di materia ansiosa, mutamento continuo, divenire di sentimenti e stati d'animo di ciò che si rivela essere la limitatezza dell'uomo di fronte alla natura.
In questo sguardo visionario sul mondo e sui suoi fenomeni, anche la luce rivela la propria origine spirituale e non più naturale; albe, tramonti, pomeriggi non esprimono tanto condizioni atmosferiche, ma l'aura di un tempo metafisico, rappresentazione del tempo infinito, immutevole, identità che attraversa il passato e il futuro senza alterarsi.
Guardare i paesaggi sfuggenti, silenziosi e deserti dove in nessun modo compare la presenza umana e avvertirne invece la spiritualità così manifesta in ogni suo aspetto; propria dell'arte come della natura è la capacità più intima di restituire al nostro sguardo quel passaggio dal visibile all'invisibile e il mistero dell'animo umano che avvolge le cose.
sabato 5 dicembre 2009
VINCENZO CARLOMAGNO - IPOTESI PER UNA LETTURA DELL'OPERA PITTORICA
venerdì 4 dicembre 2009
Vincenzo Carlomagno.
Cinque poesie tratte dalla raccolta "Con gli occhi socchiusi". (Con una nota critica di Jean Robaey).
"una stanchezza ebbra"
Le poesie di "Con gli occhi socchiusi" convincono subito, alla prima lettura, alla prima occhiata. Poesie scritte da chi non scrive poesie, o meglio da chi non aveva, finora, scritto poesie. Si presentano come il precipitare di una vita, vita comunque dedicata all’arte.
Quelle che seguono sono solo poche note, che si potrebbero e dovrebbero approfondire, seguendo altri punti di vista, aprendo e sviluppando altre tracce.
La poesia è come un cristallo, funziona se è autentica. L’importante è non strafare, non volere dire tutto: la poesia dice spesso, se non sempre, troppo e, in chi non pratica con un minimo di continuità l’arte dei versi, dice spesso troppo facilmente. Le doti necessarie a questo punto sono l’umiltà e l’attenzione. Attenzione verso le cose e umiltà dello sguardo. Vincenzo Carlomagno possiede entrambe queste qualità: i suoi testi rivelano quella che si potrebbe chiamare una lentezza, o meglio un’insistenza dell’occhio e dell’osservazione.
In effetti basta dire i colori, i loro toni, il loro adagiarsi sulla carta, entro certi spazi. La partenza di questi testi è spesso una registrazione di colori, con i loro nomi giusti e, per chi non è del mestiere, magici: "Cobalti e viola sovrattono, / rubino incupito, vinaccia virata al marrone", "Inchiostri, bitumi, ceneri, polveri, / olio, impronte di pittura", "Cera, olio, smalto". Tale registrazione può anche verificarsi in una felice ripresa all’interno del testo; si creano magmi: "[…] – Il colore del mattone, / i cantonali di pietre d’Istria, / il ritmo binato degli archi e delle navate, / le trabeazioni, i fregi rigonfi, / le balaustre, i torricini prismici, / i cartigli e i trofei, i grandi stemmi, / i fregi, le cimase bizzarre". Più raramente, e brevemente, essenzialmente, i testi si tornano a chiudere sui colori: "tra le stesure magre di ragia / e i toni disagiati di un bianco intristito", " di un azzurro smeraldo / e di un rosso troppo slavato", "tra i rossi vinosi e squillanti dei mattoni".
Il fatto è che le cose da dipingere sono sempre più in là di noi. E richiedono da noi abbandono: a cui Carlomagno cede, da cui parte e a cui ritorna, con un forte senso di emozione; e le due parole, e i due concetti, dell’abbandono e dell’emozione si ritrovano nei suoi testi (citiamo almeno un verso cardine della poetica dell’autore: "mentre mi abbandono tra i colori"). Un senso di tristezza pervade questa poesia, un senso di sconfitta rimane. Il groviglio di questi sentimenti è il motore della poesia di Carlomagno: "in una sorta di stanchezza ebbra", come dice perfettamente.
Sono poesie che chiamano la pittura, non ne sono chiamate, né l’adornano o la spiegano: nessuna qui è ancilla dell’altra. È come se l’artista non avesse tempo, o forza fisica o morale sufficiente per fare un dipinto, e intanto annotasse urgenze: "nell’ansiosa attesa", come dice ancora perfettamente.
Certo siamo sempre vicini alla pittura e si riconoscono indubbiamente nelle sue poesie, come in una forma ideale, i quadri dell’artista.
Ma sono poesie a tutti gli effetti. Ritroviamo la pratica novecentesca dei versi rientrati, che ci costringono ogni volta a guardare di nuovo, che riportano la nostra attenzione su nuove forme, nuovi colori. Molti versi sono sapientemente cesurati e mettono in evidenza (a volte con la sola virtù dei suoni) i blocchi che li compongono: "tra le stesure magre di ragia" (ancora), "spazio nello spazio, luce nella luce" (lo sa, Vincenzo, di fare qui il verso al Corano?), "di luce sfolgorante e di ombra densa", "i muri umidi unti di inchiostri e di olii", "Segno dopo segno, uno scavo visivo". Altri sono quasi interamente costruiti sull’armonia dei suoni: "di color amaranto e d’aromi", "e s’incunea nelle fessure della superficie", "lieti e leggeri", "tra le stesure magre di ragia" (ancora!). Leggiamo degli a capo stranianti o comunque significativi (le cosiddette, con vocabolo non del tutto lecito ma splendido, inarcature): "Una siepe, una panchina e / lo spazio desolato di un giardino" (e tutta la desolazione, tutta la stanchezza del giardino è già detta, o ne è contraddetta, dall’attesa provocata da quell’"e" che non chiude). A volte il verso sembra dilatarsi all’infinito: "respirano nella placida dissolvenza del cielo", e, almeno una volta, la citazione, magari inconscia e comunque filtrata, è sicura: il doppio settenario, fortemente scandito, "e l’immenso stupore dei profondi silenzi" non può non presupporre L’Infinito leopardiano; quasi ritrovando la matrice di questo nella prosa verticale e fortemente scandita di Pascal: "Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraye", ‘Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi spaventa’.
Poche, rarissime volte, il testo cede: forse quando l’emozione è troppo forte o forse, più semplicemente o nello stesso tempo, quando la ragione prende il sopravvento sulla percezione. Quando i colori arretrano e le parole vogliono dire… Ma il testo proprio da quel cedimento sa rialzarsi. Dovremmo qui citare troppo a lungo, troppi versi; ci limitiamo a rimandare a Archeologie (trittico I) di cui citiamo la sola chiusa: "Una riga rossa, quella viola / e un campo azzurro. / Struttura, ragione / ma anche la vaga idea di un orizzonte".
Queste le cose più belle: la perfezione dei testi scritti a tutto tondo; l’apertura e la complessità delle serie, prima di tutto i vari Paesaggio (da I a VII). L’ultimo Trittico (Assenze) con cui si chiude la raccolta e che palesa, come abbiamo visto, un accento pascaliano, rimane notevole. E ci fa desiderare che il poeta si rimetta a cantare: "Senza compiacenze: / il blu, il nero, l’argento, / e l’immenso stupore dei profondi silenzi / tra le inutili rivelazioni di un segno".
Ci fa sperare che riesca a vincere il senso di desolazione che pur gli ha dato la voce.
Jean Robaey
oggi è ottobre
Tra i canali un incurvarsi di ombre
in distesa rinuncia
e lungo il soleggiato anello del sentiero
vecchie sagome di legno
quasi tutte sulle tinte di un rosso
appena un po’ sanguigno e umoroso.
Oggi è ottobre e tutto è natura,
di color amaranto e d’aromi.
Tra le vigne sommerse
un arancione di spatola
tra le pietre levigate
bruni inossidati.
Dalle finestre aperte tutto è chiarità,
moventi e movimenti tendono al nulla.
Oggi guarderò le cose in un altro modo.
ad ogni occhiata ( è una cattedrale )
E’ una distesa senza spazio.
È come un susseguirsi incontrollato
di forme in libertà.
- Il colore del mattone,
i cantonali di pietra d’Istria,
il ritmo binato degli archi e delle navate,
le trabeazioni, i fregi rigonfi,
le balaustre, i torricini prismici,
i cartigli e i trofei, i grandi stemmi,
i fregi, le cimase bizzarre.
È un’atmosfera che vivifica ogni cosa
che si insinua, stimola e si trasforma.
Ad ogni occhiata è spazio è luce
è immediata vicinanza e infinita lontananza.
È l’impasto delle linee estremamente sottili
che mitigano la durezza del segno
nel morbido aspetto della superficie.
le periferie
Le periferie;
le attraverso spesso e velocemente
con gli inchiostri rossi, verdi,
azzurri, viola,
neri nel loro irritarsi
e slogarsi, in tumulto di curve
che si scompaginano e rimontano
in accumuli affannati.
C’è sempre una bellezza pericolante
tra le larghe costruzioni,
le demolizioni e quei muri
che cadono uno ad uno.
Sembrano come velati
- da una membrana di colore,
dalla tonalità minore
degli azzurri imbigiti
e degli ocra deperiti a terra spenta.
con gli occhi socchiusi
Stupore e sorpresa.
Ed ecco il colore disteso
con larghezza audace tra i piani ribaltati
e le linee prospettiche fuggenti
di luce sfolgorante e di ombra densa.
Nitidi e assorti.
Il rosso iconico, il rosso orientale,
il verde tenero, il verde bruciato,
il blu orizzontale, i gialli disseccati…..
è come l’invenzione di un paesaggio
con gli occhi socchiusi.
geografia di cieli
A volte nella geografia di certi cieli
si respirano sconfinate lunghezze
di vita in movimento.
Ma la corpulenta nuvola grigia,
che nell’idea di corsa
finge l’infinito,
nella misura delle cose
svela l’imbroglio.