giovedì 24 dicembre 2009

VINCENZO CARLOMAGNO: inaugurazione della mostra "alle origini del paesaggio"

Le seguenti foto sono state scattate la sera del 19 Dicembre 2009 in occasione della mostra dedicata a Vincenzo Carlomagno dall'associazione "Via delle Belle Arti"














domenica 6 dicembre 2009

VINCENZO CARLOMAGNO



Alle origini del paesaggio


Silvia Ferrari


Natura, spazio, colore: questo il lessico primario dei paesaggi di Vincenzo Carlomagno, gli elementi minimi declinati in infinite varianti, ognuna capace di esprimere una suggestione sempre diversa, un nuovo racconto, una visione continuamente mutata di quel rapporto spirituale esistente tra l'uomo e la natura.
La serie di paesaggi presentati oggi appartiene a un corpus di opere su carta di piccolo formato, realizzate tra il 1997 e il 2005, un periodo relativamente lungo se si considera la qualità eclettica del lavoro dell'autore, come a indicare una stagione particolarmente intensa del suo percorso e forse il nodo più problematico in cui evidentemente temi e motivi formali hanno trovato pieno sviluppo in una riflessione insistita e profonda, talvolta con esiti di distesa armonia, talvolta con accenti più drammatici.
Di fronte alle vedute sconfinate, estreme e prive di ogni elemento che non sia l'orizzonte, la terra e il cielo; di fronte allo sguardo assoluto e totalizzante su un mondo che nel mutare delle condizioni e dei colori pare racchiudere il mistero dell'esistenza, si è testimoni silenziosi del dispiegarsi di uno scambio puro e diretto tra sentimento e natura, del rapporto contemplativo tra l'animo umano e l'intima essenza del mondo.
Nell'estrema semplificazione dell'immagine, così come nella riduzione della rappresentazione a un'essenziale equilibrio tra composizione e valori cromatici, è ravvisabile non soltanto una visione virginale del paesaggio, ma anche una stretta corrispondenza tra emotività del soggetto e la parvenza esterna della natura. Un paesaggio al limite, quindi, luogo di una soggettività assoluta, dove è portato all'estremo il confine tra visione naturale e visione immaginaria.
La pittura diviene così condizione ideale per sperimentare e verificare il concetto stesso di paesaggio ancor prima del manifestarsi dell'immagine, soprattutto nella sua essenza di "spazio che si costituisce oggetto di esperienza estetica e soggetto di giudizio estetico", come viene definito da Rosario Assunto nel libro Il paesaggio e l'estetica, dove si deduce che "il paesaggio è spazio, ma non soltanto spazio. [...] E' più che spazio soltanto". Se è vero che nelle opere di Carlomagno il senso dello spazio ha un valore fondante non solo in ambito formale, ma anche e soprattutto concettuale, è altrettanto vero che è in quel più che va ricercato il senso più profondo della sua personale interpretazione del paesaggio, un senso che si spiega nella disposizione dell'autore a proiettare fuori di sé, sugli aspetti del mondo naturale, il proprio io fino a tradurre la natura stessa in un grandioso scenario esistenziale dei propri paesaggi interiori.
Ecco allora come il rigore compositivo, che affida alla linea dell'orizzonte l'organizzazione visuale dello spazio, solidamente strutturato tra alto e basso, arriva a privarsi di quasi ogni appiglio visuale per l'occhio per disegnare distanze non misurabili, come a dire di una natura inconoscibile, oggetto di un confronto ineluttabile che può divenire minaccioso, oscuro e perturbante, laddove espliciti segni annunciano tale intonazione emotiva; così appaiono le sagome nere dei rari arbusti o degli alberi dalle chiome dense e disegnate come vortici di materia, che gettano altrettante ombre sul terreno come anime inquiete; o le colonne di fumo grigio che salgono da un punto indefinito in lontananza, forze premonitrici di infausti eventi; o i cieli addensati di nubi livide rese impetuose da un gesto pittorico irruente; o, infine, i campi incolti arruffati da grovigli di segni a pastello sconvolti da spinte invisibili.
La capacità evocativa viene qui conferita all'organizzazione tonale e all'intensità gestuale e materica della pittura; la pennellata energica, rapida e densa si sovrappone al rigore della scansione spaziale dell'immagine, interrompendo il nitore dell'architettura visuale e lasciando all'esperienza del colore, di quei "colori affaticati dal tempo", pura libertà espressiva fino a giungere ad esiti di estrema astrazione formale. La stessa libertà espressiva, lo stesso procedere per assenza di struttura narrativa, la stessa trasgressione dei codici imitativi che si ritrovano nei versi poetici che accompagnano la ricerca visiva dell'autore, una consonanza linguistica tra pittura e poesia che si avvale dei medesimi intendimenti formali.
Ma questa totale adesione al sentimento della natura sa restituire anche significati di un'affettività più serena, dove l'uomo sembra ricostituire un rapporto misurato, di calma meditazione; così appare con maggiore evidenza nelle opere dove prevale un'accentuazione della costruzione prospettica dello spazio, quando, cioè, la struttura spaziale dell'immagine si impone alla forza del colore e si preoccupa di costruire piani digradanti per creare una profondità. In tali esempi si fa più nitida la definizione della forma, mentre il colore e la pennellata assumono un tono certamente meno drammatico, per generare una dimensione di più classica, pacata armonia.
Di altra intonazione i paesaggi, parte di un gruppo di opere a pastello, caratterizzati da toni vivaci e contrastanti e dal segno deciso e veloce: particolari di tronchi nodosi, vedute di spiagge, litorali lontani, vegetazioni marine e lingue di terra viste attraverso l'impedimento in primo piano di parvenze di sottili fusti di alberi, canneti che dividono la superficie cartacea in campi consecutivi secondo cadenze ritmiche solo apparentemente casuali che conferiscono alle immagini inconsuete soluzioni visive.
L'aspetto contemplativo e riflessivo è all'origine della ricerca sul paesaggio di Carlomagno; in particolare il generare quella linea d'orizzonte, il separare il campo visivo con quella retta che definisce per sempre ciò che è cielo e ciò che è terra non può prescindere dalle speculazioni filosofiche sull'infinito e sulla limitatezza. Il paesaggio è sì uno spazio limitato, ciò che viene scelto dallo sguardo perché adatto a ritrarsi in pittura, riportato nel campo definito e chiuso del quadro; ma è anche uno spazio aperto sull'infinito; è, cioè, come ancora sottolinea Rosario Assunto, "presenza dell'infinito nel finito". Se infatti il cielo in sé non può essere considerato paesaggio, la sua presenza all'interno dell'opera contribuisce a definire il paesaggio stesso. Giacomo Leopardi ha parlato dell'infinito in un paesaggio limitato dalla presenza di una siepe, mettendo in evidenza la centralità del limite. L'orizzonte delinea quel limite, aprendo lo spazio all'infinità del pensiero, uno spazio che, si noterà, non è mai vuoto, bensì denso di materia ansiosa, mutamento continuo, divenire di sentimenti e stati d'animo di ciò che si rivela essere la limitatezza dell'uomo di fronte alla natura.
In questo sguardo visionario sul mondo e sui suoi fenomeni, anche la luce rivela la propria origine spirituale e non più naturale; albe, tramonti, pomeriggi non esprimono tanto condizioni atmosferiche, ma l'aura di un tempo metafisico, rappresentazione del tempo infinito, immutevole, identità che attraversa il passato e il futuro senza alterarsi.
Guardare i paesaggi sfuggenti, silenziosi e deserti dove in nessun modo compare la presenza umana e avvertirne invece la spiritualità così manifesta in ogni suo aspetto; propria dell'arte come della natura è la capacità più intima di restituire al nostro sguardo quel passaggio dal visibile all'invisibile e il mistero dell'animo umano che avvolge le cose.

































sabato 5 dicembre 2009

VINCENZO CARLOMAGNO - IPOTESI PER UNA LETTURA DELL'OPERA PITTORICA
























di
FRANCO MORSELLI, febbraio 2008


Gettare uno sguardo.

Nei sei pannelli che compongono il quadro " La doppia natura", del 2007, nell’angolo in alto a sinistra, nel punto che dovrebbe rappresentare il nostro abituale inizio di lettura, il profilo scuro di una colomba tenta il volo sullo sfondo di una mano destra perentoriamente alzata. È l’immagine di un divieto, quasi ne sentiamo il suono, secco come un colpo di martello, e immediatamente dentro di noi avvertiamo che il volo della colomba è destinato a finire presto o che, perlomeno, le attese insite in quel battito d’ali andranno deluse. È un inizio-conclusione che non lascia adito a speranze. La fine del percorso è già anticipata nel suo esordio, come in quei labirinti medioevali graffiti sui pavimenti delle cattedrali ove, nonostante la lunghezza del corridoio compresso dentro un cerchio perfetto, in realtà era vietato tanto scegliere che perdersi, e la matassa solo apparentemente aggrovigliata conduceva il simbolico pellegrino ad un unico punto ineluttabile. Ma, così come nel medioevo ciò che contava non erano l’inizio e la fine, ben noti a ogni fedele, ma il viaggio dell’anima tra i due estremi, così anche nell’opera di Carlomagno, come in qualsiasi opera, il "perché" da ricercarsi risiede nell’articolazione del cammino, nel linguaggio, anche se tra l’α e l’ω della sua pittura quel colpo di martello anticipato getterà costantemente la sua sinistra luce.
Un ostinato residuo del modo in cui ad ogni coscienza appena formatasi si presenta il mondo permane nel primo gesto del pittore che si guarda intorno: gettare uno sguardo. La colorata indeterminatezza che con contorni quasi psichedelici deve presentarsi alla neonata pupilla rivive nell’inestricabile caleidoscopio di concetti sedimentati che l’adulto pittore cerca di fissare su un supporto. Soverchiato dall’esperienza personale e dalle stratificazioni storiche che ontologicamente ciascuno di noi si porta dentro, il pittore sincero deve accontentarsi di quel primo sguardo. Nelle tavole raccolte nel catalogo del 1998 il primo sguardo è l’orizzonte, e la linea retta ne è il morfema primitivo. L’incipit pittorico inizia come chiarezza, razionalità geometrica. Un quieto segmento taglia in due il foglio separando due grandi masse di colore ma, nella semplicità del primo sguardo che cerca la pace del lago, del mare, della sconfinata pianura, il conflitto è già prepotentemente in atto. Il segmento è ordine ma è anche ferita. Un’omogeneità indifferenziata ha lasciato il posto a una profondità ancora lungi dall’essersi strutturata. Due mondi, quello del cielo e quello della superficie terrestre, fremono per la voglia di popolarsi. Già pensieri senza direzione * si addensano, e l’orizzonte non è ancora del tutto nato che già si slabbra. E il pittore, che della geometria ha fatto il suo mestiere, avverte tutta la transitorietà di quel supporto. L’imperfezione del gesto non è l’incidente di una mano incerta, ma l’urgere di una materia che non si lascia incasellare: Urano e Gea non possono essere posti l’uno accanto all’altro senza che l’intero universo non ne risulti irrimediabilmente sconquassato. Nella serie dei bellissimi "Sunset", "Dawn", "Paesaggio", il colore si inturgidisce sotto e sopra l’orizzonte. La terra si corruga e il cielo si incupisce, indocili forme di vita accendono continuamente nuovi drammi. In alcuni "Sunset" sembra che fragili correnti migratorie attraversino la pianura. Nel caos che la ferita ha aperto ogni dimora è incerta e l’occhio che si è aperto ne ha colto tutta la precarietà. Alla fine però, già in quel primo ciclo del 1998, qualcosa si placa. Nella serie dei "Trees" l’orizzonte, medium della crisi, relegato ai bordi della tavola, o scomparso del tutto, non fa piu paura. L’arco che la vita dell’orizzonte descrive in quegli anni nelle tavole di Carlomagno: quiete, spasmo, convulsione, quiete, è l’arco di un ciclo musicale. Ricorda da vicino un ciclo di Lieder, o l’accoramento delle sinfonie di Mahler. Il mezzo artistico della pittura, eminentemente sinottico, si rivolge al tempo, unico veicolo per lo struggimento del ricordo, e vi si immerge. Ciò che sembrava immobile tumultua, ciò che sembrava muto è capace di ruggire, e la tristezza sta nell’illusione con cui pieni di fiducia si aveva aperto gli occhi. Colui che vede sa, per la prima volta, di essere solo al mondo.


L’analisi illusoria.

La forma in cui approda l’esperienza pittorica di Carlomagno nelle tavole di quegli anni denuncia una forte ascendenza Klimtiana, o più generalmente Secession. L’attenzione che si concentra sotto l’orizzonte e i particolari in primo piano che assumono un’autonomia quasi decorativa rimandano al Klimt dei paesaggi dipinti tra il 1898 e il 1903. Lo sguardo che ha avuto paura della prima occhiata esorcizza il panico concentrandosi sul dettaglio e trasfigurandolo. È il momento dell’analisi, che è la prima riflessione sulle cose. Ora ogni referente figurativo, analizzato nel dettaglio, svela la geometria che la nascita del mondo, nel suo sconquasso, ci aveva fatto dimenticare, e il mestiere, l’a priori dell’io-occhio Carlomagno, imbriglia il visibile in una realtà apparentemente doma. Il qualcosina in più del mero strumento tecnico che la geometria gli fornisce è, per Carlomagno, la bidimensionalità. Nasce con queste opere, tendenti per loro natura al quadrato, forma per eccellenza al di sopra delle parti, una costante dell’opera dell’artista. Il dettaglio astratto è un’estrapolazione da un mondo che si sa di non poter governare. È un attimo illusorio in cui l’io osservante crede di trovare pace. La superficie è, nel mestiere del "geométra", la percezione di un "in sé" depurato della sua stessa lotta, la tranquilla proiezione di un dramma le cui fiammate non ci scaldano.Ma è anche velo, che nel dileguarsi della nebulosità in cui svaporano i contendenti ci ricorda sommesso che la contesa ha un luogo. Sottintendendo la terza dimensione come un altrove che si arriccia sotto le prime due, come in una ringhiera di ferro battuto, in una filigrana, o in un lavoro di oreficeria a sbalzo, il velo filtra un intero palcoscenico di eventi che la crudezza di una prospettiva rigorosa non riesce a rappresentare. Dall’Art Nouveau in poi, l’enigma di una quarta dimensione aggrovigliata tra le prime tre viene risolta in pittura semplicemente eliminando la terza. In quelli che sono chiamati gli stili decorativi i rapporti tra le parti del dipinto tendono a diacronizzarsi, mentre il velo che ne amalgama i contrasti diventa il vero medium del dettaglio. E il dettaglio si organizza, nell’Art Nouveau come in questa fase dell’opera di Carlomagno, in forme e campiture che, al limite di rapporti aurei e istintive proporzioni pitagoriche, potremmo frettolosamente definire "rigorose". Ma la rigorosità in arte non esiste, mentre esiste, per l’occhio del viandante, l’eterna ricerca del rifugio, di quell’attimo di disimpegno e di riposo in cui la formica è un mondo.Ma i veli, siano quello delle Grazie, siano quello di Maya, esistono solo per essere squarciati, e l’apparizione della dea nuda porta di nuovo, come la lotta nel mondo sulla quale si erano socchiusi gli occhi, al dilaniamento dell’io osservante. Il riposo di Carlomagno ha avuto luogo tra strade umili e mucchi di foglie, tra tracce di ruderi macilenti i margini insostenibili di un canale, ove c’è stato il tempo di analizzare dettagli di emozioni e indugiare nell’ordinata calma delle tue labbra. Ma il tempo è già trascorso. La bidimensionalità analitica non salva. C’è sempre un particolare in cui sprofondare per scoprire ancora un mondo senza pace. Nell’ottantunesimo dei Cantos di Ezra Pound, il verso "La formica è un centauro nel suo mondo di draghi" potrebbe essere stato scritto dal Carlomagno di questa fase.La tenue leggerezza del velo non ci salva dai nostri stessi cani che ci aggrediscono per riprecipitarci in una nuova lotta che a malapena avevamo sospettato, mentre la dea ha già volto altrove il suo sguardo indifferente. L’attimo in cui ci si era fermati ad osservare il microcosmo dilegua come era dileguato il passo che l’aveva preceduto.


La critica illusoria.

Nel 2007 Carlomagno dipinge, oltre alla "Doppia natura", un secondo pannello di grandi dimensioni: "Il tempo è luogo di archeologie". I due pannelli stanno in stretto rapporto tra loro, rappresentando l’uno l’apparente antitesi dell’altro. L’ordine di lettura comincia da "Il tempo è luogo di archeologie". È un titolo da prendersi alla lettera e riassume il percorso di Carlomagno dopo l’abbandono della resa geometricamente stilizzata dei dettagli. Tutti i termini del titolo: "tempo", "luogo", "archeologie", hanno un’importanza determinante per questa fase. L’esperienza pittorica della quale siamo spettatori si snoda nel tempo con una struttura simile a quella di un romanzo o di un poema, ed è quindi nello scorrere del tempo che raccoglie e si fa luogo di ciò che nel tempo stesso si deposita. L’esposizione di queste tracce mnestiche si snocciola come una passeggiata archeologica in un museo o in una città morta, dove ogni oggetto che si incontra grida al visitatore sensibile la sua storia, ovvero il dramma che lo ha condotto fino ai nostri occhi. All’inizio la maceria, il reperto archeologico, nella sua apparenza viva, si presentava come simbolo. Nel suo viaggio attraverso l’illusione Carlomagno ne ha abusato. Ferito da una realtà naturalistica indifferente, se non ostile, verso colui che la interroga con passione, l’io osservante e viaggiatore ha cessato, per un attimo, di essere narrante, e si è rinchiuso nel luogo definitivamente circoscritto del collezionismo. Il collezionista, a differenza dell’artista, è uno che vive di certezze. Il suo linguaggio semplice, ma pieno di presunzioni di onnisignificatività, è fatto di pezzi raccolti, oggetti dati come sono date le parole, grumi di contenuto il cui significato, così universalmente valido da risparmiarci una pericolosa articolazione del pensiero, si condensa nel simbolo. Nella serie "Rigorose semplificazioni" il simbolo appare, come il titolo stesso suggerisce, con la chiarezza di un’icona. Non sfuggono alla stessa sorte i " Paesaggio italiano" e i "Privi di sostegno". La colomba, il più trito pittogramma della pace ecumenica, e la città murata, l’emblema meno politically correct in epoca di globalizzazione e xenofobia, hanno la rassicurante disponibilità di un abito pret a porter. In una tavola della serie "Formale", il cuore stesso della colomba bypassa ogni ridondante mistificazione per offrirsi ancor vivo e palpitante al nostro sentimentalismo carnivoro. La fredda classificazione dell’oggetto ha orrore di se stessa e rifiuta di astrarsi dalla prassi. Rigorosa semplificazione risulta, alla fine, la carta da gioco gettata sul tavolo verde al posto dell’offerta deposta sull’altare, il presunto asso piglia tutto con cui l’artista si illude di chiudere la partita. Il simbolo raccolto con la nonchalance un po’ ansiosa del collezionista riacquista qui il suo significato più profondo: coagulo di possibilità umane per esorcizzare minacce esterne. E l’artista torna a essere mago, torna a essere colui che di quegli esorcismi si è fatto vaso e ricettacolo. La critica alla natura passa attraverso il mago, che la conosce e la domina, mentre le forme della conoscenza e del dominio sono i simboli che il mago ha collezionato durante il suo cammino. È un equilibrio fragile, basta un attimo perché i simboli tornino a essere reperti. L’attimo fatale è il disincanto. L’opera di Carlomagno "Il tempo è luogo di archeologie" sancisce gli estremi della parabola reperto-simbolo-reperto.È un’opera complessa che, come quelle successive, racchiudendo e riassumendo tutte le tematiche dell’artista, va analizzata a fondo. Innanzitutto gli oggetti: il collezionista critico non ne ha dimenticato uno. È interessante, quasi divertente, cercarli tutti. La natura, dopo essersi lei stessa ridotta a simbolo, è entrata a far parte degli oggetti. Manca l’orizzonte, come se nel suo progressivo avvicinarsi al mondo sconvolto delle prime tavole Carlomagno, squarciato il velo di un ragionevole ottimismo, fosse penetrato nel sottomondo brulicante e primordialecon l’acutezza di un biologo al microscopio. Ma tra gli oggetti, case, animali, vegetazione, sono spuntati nuovi personaggi e le facce, gli atteggiamenti, i gesti, ribadiscono ancora una volta che per l’io errante non v’è salvezza. Questa variante in chiave contemporanea dei dannati che si accalcano sul fondo dei giudizi universali del medioevo e del rinascimento fonde i suoi elementi disgregati in una fiamma calda che non risparmia quasi nulla. Le tinte calde e accese di quest’ "aere perso" trionfano e oscurano l’orizzonte del dibattersi in una mancanza di profondità che non è più decorativismo, ma insondabilità dello spazio. Una terrorizzante figura conduce la danza macabra. Potrebbe essere il demone che ha gettato all’aria le carte del collezionista, ma propabilmente è l’immagine del collezionista stesso. Nel guardarsi allo specchio anche le viscere del collezionista diventano reperti. L’autopsia dello scavo coinvolge anche l’archeologo, e mira a esporre nudi i suoi resti in punta di forchetta. L’ordinato corridoio del museo, parvenza di critica al reale che l’irrequietezza del viandante-occhio si era illuso di afferrare sotto forma di concetto, si è sbriciolato per sempre. Nel convulso reimpiego dei suoi reperti l’io vedente ha eretto un edificio che gli è immediatamente crollato addosso. Il reperto torna a essere maceria.


La salvezza.

Le ultime figure della narrazione fanno la loro comparsa in "Confortati dal suono" 1 e 2, in "Prima era un paesaggio", in "Le ricchezze del cuore", in "Conciliante adulatorio", fino allo splendido pannello "La doppia natura" che, più che concludere un ciclo, verrebbe da dire che conclude un’era. L’epica si fa più serrata e impenetrabile. La modalità pittorica sembra fare ritorno, proprio come in un ciclo che si chiude, a quella Klimtianità, a quell’atmosfera Secession dalla quale era partita dieci anni prima. "Conciliante adulatorio" potrebbe essere letto come un omaggio a Klimt, depurato da tutto il bizantinismo da terme e grand hotel che appesantisce il maestro austriaco. Nei "Confortati dal suono" riecheggia un eco del Chagall meno scontato. ( E forse l’incontro di Chagall e Klimt nel Carlomagno apolide non è così impropabile, se entrambi già si erano incontrati in Ahasvero, l’ebreo errante, l’uno per discendenza familiare, l’altro per quell’intreccio di motivi che disegnava allora al centro dell’Europa, ironia della sorte, il più raffinato arabesco degli ultimi due secoli). Il filo conduttore di questi pannelli, tutti di notevoli dimensioni, è la presenza di una grande figura, maschile nei due "Confortati dal suono", femminile negli altri. Le due figure maschili suonano uno strumento. La natura sembra sospesa in un istante di attesa. La salvezza si fa strada tramite una musica melodiosa. La superficie che Carlomagno unghia alla ricerca delle pieghe di un’altra dimensione si arricchisce di qualcosa che la pittura non può descrivere: il suono. La figura suonante si inserisce nella collezione di macerie di un già visto, già saputo,già sentito ma, invece di affastellarli in un reimpiego caotico, riordina i simboli circostanti infondendogli nuova vita. Il mammifero, il volatile e il rettile non sono più vittime della forza centrifuga del crollo ma si rivolgono, o assistono docili, all’azione di colui che mette ordine. L’esorcismo della musica sostituisce al reimpiego delle macerie del collezionista illuso l’anastilosi consapevole dell’archeologo saggio. In "Confortati dal suono 2", l’anatra che spicca il volo non è ancora sufficiente a creare una falla nella facciata del tempio appena edificata. Nelle ultime opere di Carlomagno la figura soterica centrale che costantemente domina la scena, divinità femminile che immediatamente ha reclamato il proprio diritto sul tempio rimesso a nuovo e se ne è appropriata, è il suggello del nuovo ordine universale ritrovato. In "La doppia natura", l’opera più compiuta e forse più ambiziosa di Carlomagno, la collocazione centrale del personaggio ricalca una perfezione platonico-ficiniana che ricorda la Primavera del Botticelli. La natura, l’opera dell’uomo e l’uomo stesso vi sono disposti intorno in perfetta simmetria. La femminea determinazione dello sguardo, il "femminino eterno" icona di un’intera generazione simbolista, revoca a sé ogni potere morale e legislativo, mentre la colomba che delicatamente regge rassicura sulle sue intenzioni. Il mondo che la circonda è totale e anche all’osservatore meno attento non sfuggirebbero i richiami, prima ancora che biblici, ancestrali, dei simboli che vi sono disseminati.La superficie pittorica, sulla quale Carlomagno lavora tenacemente fin dagli esordi, si fa qui coagulo perfetto del mondo, fondendone insieme gli elementi e tutto avvolgendo con la sua materia calda. Anche qui la profondità è affidata alla sovrapposizione di colore, portando a conseguenze vertiginose la valenza spazio-temporale che era stata individuata nella soppressione della terza dimensione. Per Carlomagno, come per ogni architetto che abbia lavorato col passato, ogni intonaco non è che un’ultima illusione, ed ogni scrostatura rivela sedimentazioni di tinte, tracce di mani che sono altrettante sedimentazioni di dolore. La profondità della pennellata è la profondità del cuore e, per un attimo, la linea Secession della narrazione e la macchia Die Brucke di quanto dalla narrazione è lasciato in ombra concordano nel tenere insieme il mondo e l’anima che, sotto l’egida della dea archeologa, sembra lottare vittoriosa contro la propria dissoluzione. In quell’attimo di sospensione che la musica aveva preparato e che solo la fruizione sinottica della pittura può permettere, la legge del cuore e il corso del mondo si conciliano e l’hegeliano principio di sconvolgimento appare davvero come una unità estranea e accidentale. La solida anastilosi del sapiente archeologo ha ripristinato l’ordine universale e la pace, e la dea ne garantisce la durata.


Il suono sordo.

Nella Primavera del Botticelli in alto, a sinistra, il caduceo, arma della sapienza ermetica, squarcia le nubi dell’ignoranza. È questo il risultato ultimo, quello umanisticamente più interessante, dell’effluvio proveniente dall’Afrodite Urania che occupa il centro della scena. Come in Botticelli, anche in Carlomagno la lettura del quadro finisce in alto a sinistra, ma con un suono sordo. Il presunto ordine della complessa anastilosi si rivela precario ed arbitrario, e la costruzione cede di schianto. Solo quando lo si è definitivamente sentito ci si rende conto che lo schianto era la vera conclusione del percorso. Ora ogni apparizione soterica, vista a ritroso, non funziona più. In "Confortati dal suono 2" i mammiferi si erano rivolti incuriositi verso il suonatore, ma l’anatra che fuggiva spaventata, come per una rosa di pallini caduta accanto al nido, acquista adesso una luce profetica. Anche il sereno idillio di "Confortati dal suono 1" rivela già la prima incrinatura nella eteronomia di un discorso musicale che cercava di incantare chi, nella sua naturale essenza, non aveva bisogno di essere incantato. E, se il mammifero propabilmente abbocca, i piccioni svolgono refrattari in coppia il loro semplice lavoro quotidiano.Il serpente, in bilico tra i due mondi, incantato o incantatore, è il simbolo ambiguo: la sua posizione e la sua somiglianza con il flauto sono le forme del sospetto.La crepa, come un rettile, si è già insinuata nelle fondamenta della casa appena costruita. Ma è nei due bellissimi "Non lasciava alternativa" che tutta la violenza del colpo di martello si annuncia inevitabile. Le anatre che fuggono terrorizzate occupano quasi tutto lo spazio del dipinto. Una impotente disperazione ha riconquistato il primo piano e solo per un nonnulla il serpente, rovescio di uno Zauberflote riportato all’epifania della linea pura, fallisce il bersaglio. "Conciliante adulatorio", il quadro omaggio a chi della dorata ricchezza ha fatto cornice di struggimento e morte, dà inizio al dopo suono. La dea, confusa col serpente che la delinea e l’avvolge, sprofonda nella natura dalla quale il primo sguardo aveva cercato di levarla. La musica torna a essere frammento, singhiozzo, tuttalpiù motivetto facile, lineetta sinuosa adatta ad accompagnare il ricordo di ogni singola maceria che il cuore e l’umanità hanno tentato a tutti i costi di ricomporre. Il flauto si è contorto accattivante e nel ritrarsi dalla e nella superficie la dea è svelata: il velo dell’ancora recente purezza si è squarciato e l’apparenza della salvezza gioca inutilmente la carta della seduzione pura. Ma la seduzione costringe la figura soterica a confessarsi. Era la dea a pretendere la vittima, e forse la pretenderebbe ancora, solo che adesso la pretesa suona leggera, e un po’ stonata, come l’ammiccamento di uno sguardo torbido in una balera popolare. L’anatra recalcitrante ne è sfuggita, l’agnello no, ma solo per innata vocazione. Ogni fatto è avvenuto, ogni avvenimento è stato un terremoto di legami. Ogni cadenza infiammata o trionfale non ha più ragione di essere: d’ora in poi i pannelli di Carlomagno procederanno "bitterlich", con amarezza, come nelle indicazioni per il direttore d’orchestra in certe code nelle sinfonie di Mahler. La dea è stata vista, ma i cani non hanno sbranato chi l’ha scorta. La fusione con la natura, la visione dell’Anfitrite che animava Bruno, fonte di tutti i numeri, di tutte le specie, di tutte le ragioni, l’illusione aristocratico borghese che regge l’opera di un Tiziano come quella di un Beethoven, in Carlomagno non si realizza.Se il corso del mondo è invulnerabile per la virtù, Hegel ne è contento, Carlomagno no. Carlomagno come Mahler, dal cui paragone era scaturito il titolo di quando ne scrissi dieci anni fa, non si fa interprete di chi dalla lotta con il mondo si aspetta una vittoria, o una sconfitta ammantata di gloria eterna.Carlomagno simpatizza con chi è rimasto fuori, con chi ha interrogato senza ricevere risposta, con chi ha osservato attonito accontentandosi, alla fine, di registrare l’eterna indifferenza delle cose. Simpatizza con "gli asociali, che tendono invano le loro mani verso la collettività". Nell’opera di Carlomagno, come nell’ultimo movimento della sesta sinfonia del musicista, alla fine di ogni slancio cala il suono sordo del martello, e sembra che la speranza sia irrimediabilmente infranta. Ma l’intervento censoreo della collettività compatta, alleata con il corso del mondo e della storia, non sarà mai definitivo per le sue vittime. Finché una pupilla di un io osservante sarà rimasta aperta, anche solo nella disillusa dolcezza del ricordo il corso del mondo sarà tenuto sotto scacco.

* I testi in corsivo sono tratti dalle poesie di Carlomagno

venerdì 4 dicembre 2009

Vincenzo Carlomagno.

Cinque poesie tratte dalla raccolta "Con gli occhi socchiusi". (Con una nota critica di Jean Robaey).



"una stanchezza ebbra"

Le poesie di "Con gli occhi socchiusi" convincono subito, alla prima lettura, alla prima occhiata. Poesie scritte da chi non scrive poesie, o meglio da chi non aveva, finora, scritto poesie. Si presentano come il precipitare di una vita, vita comunque dedicata all’arte.
Quelle che seguono sono solo poche note, che si potrebbero e dovrebbero approfondire, seguendo altri punti di vista, aprendo e sviluppando altre tracce.
La poesia è come un cristallo, funziona se è autentica. L’importante è non strafare, non volere dire tutto: la poesia dice spesso, se non sempre, troppo e, in chi non pratica con un minimo di continuità l’arte dei versi, dice spesso troppo facilmente. Le doti necessarie a questo punto sono l’umiltà e l’attenzione. Attenzione verso le cose e umiltà dello sguardo. Vincenzo Carlomagno possiede entrambe queste qualità: i suoi testi rivelano quella che si potrebbe chiamare una lentezza, o meglio un’insistenza dell’occhio e dell’osservazione.
In effetti basta dire i colori, i loro toni, il loro adagiarsi sulla carta, entro certi spazi. La partenza di questi testi è spesso una registrazione di colori, con i loro nomi giusti e, per chi non è del mestiere, magici: "Cobalti e viola sovrattono, / rubino incupito, vinaccia virata al marrone", "Inchiostri, bitumi, ceneri, polveri, / olio, impronte di pittura", "Cera, olio, smalto". Tale registrazione può anche verificarsi in una felice ripresa all’interno del testo; si creano magmi: "[…] – Il colore del mattone, / i cantonali di pietre d’Istria, / il ritmo binato degli archi e delle navate, / le trabeazioni, i fregi rigonfi, / le balaustre, i torricini prismici, / i cartigli e i trofei, i grandi stemmi, / i fregi, le cimase bizzarre". Più raramente, e brevemente, essenzialmente, i testi si tornano a chiudere sui colori: "tra le stesure magre di ragia / e i toni disagiati di un bianco intristito", " di un azzurro smeraldo / e di un rosso troppo slavato", "tra i rossi vinosi e squillanti dei mattoni".
Il fatto è che le cose da dipingere sono sempre più in là di noi. E richiedono da noi abbandono: a cui Carlomagno cede, da cui parte e a cui ritorna, con un forte senso di emozione; e le due parole, e i due concetti, dell’abbandono e dell’emozione si ritrovano nei suoi testi (citiamo almeno un verso cardine della poetica dell’autore: "mentre mi abbandono tra i colori"). Un senso di tristezza pervade questa poesia, un senso di sconfitta rimane. Il groviglio di questi sentimenti è il motore della poesia di Carlomagno: "in una sorta di stanchezza ebbra", come dice perfettamente.
Sono poesie che chiamano la pittura, non ne sono chiamate, né l’adornano o la spiegano: nessuna qui è ancilla dell’altra. È come se l’artista non avesse tempo, o forza fisica o morale sufficiente per fare un dipinto, e intanto annotasse urgenze: "nell’ansiosa attesa", come dice ancora perfettamente.
Certo siamo sempre vicini alla pittura e si riconoscono indubbiamente nelle sue poesie, come in una forma ideale, i quadri dell’artista.
Ma sono poesie a tutti gli effetti. Ritroviamo la pratica novecentesca dei versi rientrati, che ci costringono ogni volta a guardare di nuovo, che riportano la nostra attenzione su nuove forme, nuovi colori. Molti versi sono sapientemente cesurati e mettono in evidenza (a volte con la sola virtù dei suoni) i blocchi che li compongono: "tra le stesure magre di ragia" (ancora), "spazio nello spazio, luce nella luce" (lo sa, Vincenzo, di fare qui il verso al Corano?), "di luce sfolgorante e di ombra densa", "i muri umidi unti di inchiostri e di olii", "Segno dopo segno, uno scavo visivo". Altri sono quasi interamente costruiti sull’armonia dei suoni: "di color amaranto e d’aromi", "e s’incunea nelle fessure della superficie", "lieti e leggeri", "tra le stesure magre di ragia" (ancora!). Leggiamo degli a capo stranianti o comunque significativi (le cosiddette, con vocabolo non del tutto lecito ma splendido, inarcature): "Una siepe, una panchina e / lo spazio desolato di un giardino" (e tutta la desolazione, tutta la stanchezza del giardino è già detta, o ne è contraddetta, dall’attesa provocata da quell’"e" che non chiude). A volte il verso sembra dilatarsi all’infinito: "respirano nella placida dissolvenza del cielo", e, almeno una volta, la citazione, magari inconscia e comunque filtrata, è sicura: il doppio settenario, fortemente scandito, "e l’immenso stupore dei profondi silenzi" non può non presupporre L’Infinito leopardiano; quasi ritrovando la matrice di questo nella prosa verticale e fortemente scandita di Pascal: "Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraye", ‘Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi spaventa’.
Poche, rarissime volte, il testo cede: forse quando l’emozione è troppo forte o forse, più semplicemente o nello stesso tempo, quando la ragione prende il sopravvento sulla percezione. Quando i colori arretrano e le parole vogliono dire… Ma il testo proprio da quel cedimento sa rialzarsi. Dovremmo qui citare troppo a lungo, troppi versi; ci limitiamo a rimandare a Archeologie (trittico I) di cui citiamo la sola chiusa: "Una riga rossa, quella viola / e un campo azzurro. / Struttura, ragione / ma anche la vaga idea di un orizzonte".
Queste le cose più belle: la perfezione dei testi scritti a tutto tondo; l’apertura e la complessità delle serie, prima di tutto i vari Paesaggio (da I a VII). L’ultimo Trittico (Assenze) con cui si chiude la raccolta e che palesa, come abbiamo visto, un accento pascaliano, rimane notevole. E ci fa desiderare che il poeta si rimetta a cantare: "Senza compiacenze: / il blu, il nero, l’argento, / e l’immenso stupore dei profondi silenzi / tra le inutili rivelazioni di un segno".
Ci fa sperare che riesca a vincere il senso di desolazione che pur gli ha dato la voce.

Jean Robaey






oggi è ottobre

Tra i canali un incurvarsi di ombre
in distesa rinuncia
e lungo il soleggiato anello del sentiero
vecchie sagome di legno
quasi tutte sulle tinte di un rosso
appena un po’ sanguigno e umoroso.
Oggi è ottobre e tutto è natura,
di color amaranto e d’aromi.
Tra le vigne sommerse
un arancione di spatola
tra le pietre levigate
bruni inossidati.
Dalle finestre aperte tutto è chiarità,
moventi e movimenti tendono al nulla.
Oggi guarderò le cose in un altro modo.




ad ogni occhiata ( è una cattedrale )

E’ una distesa senza spazio.
È come un susseguirsi incontrollato
di forme in libertà.
- Il colore del mattone,
i cantonali di pietra d’Istria,
il ritmo binato degli archi e delle navate,
le trabeazioni, i fregi rigonfi,
le balaustre, i torricini prismici,
i cartigli e i trofei, i grandi stemmi,
i fregi, le cimase bizzarre.
È un’atmosfera che vivifica ogni cosa
che si insinua, stimola e si trasforma.
Ad ogni occhiata è spazio è luce
è immediata vicinanza e infinita lontananza.
È l’impasto delle linee estremamente sottili
che mitigano la durezza del segno
nel morbido aspetto della superficie.




le periferie

Le periferie;
le attraverso spesso e velocemente
con gli inchiostri rossi, verdi,
azzurri, viola,
neri nel loro irritarsi
e slogarsi, in tumulto di curve
che si scompaginano e rimontano
in accumuli affannati.
C’è sempre una bellezza pericolante
tra le larghe costruzioni,
le demolizioni e quei muri
che cadono uno ad uno.
Sembrano come velati
- da una membrana di colore,
dalla tonalità minore
degli azzurri imbigiti
e degli ocra deperiti a terra spenta.



con gli occhi socchiusi

Stupore e sorpresa.
Ed ecco il colore disteso
con larghezza audace tra i piani ribaltati
e le linee prospettiche fuggenti
di luce sfolgorante e di ombra densa.
Nitidi e assorti.
Il rosso iconico, il rosso orientale,
il verde tenero, il verde bruciato,
il blu orizzontale, i gialli disseccati…..
è come l’invenzione di un paesaggio
con gli occhi socchiusi.



geografia di cieli

A volte nella geografia di certi cieli
si respirano sconfinate lunghezze
di vita in movimento.
Ma la corpulenta nuvola grigia,
che nell’idea di corsa
finge l’infinito,
nella misura delle cose
svela l’imbroglio.

giovedì 3 dicembre 2009

Vincenzo Carlomagno. Antologia di interventi critici sull'opera pittorica e poetica



Dentro la profondità dell’orizzonte. 

 Guardare e vedere la realtà per poi interpretarla con forme libere fatte di segni e colori: il pittore. Guardare e vedere la realtà per poi intervenire dentro di essa con progetti ed opere destinati a modificarne in modo stabile ed irreversibile – salvo la distribuzione - aspetto, sostanza e qualità: l’architetto. Fantastico (alla lettera) e virtuale l’uno, razionale e concreto l’altro, si tratta, comunque, di due luoghi canonici della creatività, distanti e diversi quant’è un sogno da un oggetto. Ed artistici per eccellenza: dalle più remote origini della comunicazione visiva ad oggi; accade qualche volta che essi convergano in quello specialissimo, sfuggente immaginario-concreto che è lo spazio. Lo spazio: quella dimensione che è intellettuale (lo sgomento esistenziale che scaturisce dall’Infinito di Leopardi; l’angosciante, surreale solitudine che pervade le Piazze di De Chirico…) e materiale assieme (l’ambiente dove s’agita la quotidianità d’ognuno). Esso permette di conciliare, mediante il gesto inventivo, opposti concettualmente estremi quanto un’immagine gradevole in sé, destinata ad essere soltanto se stessa, ed un’altra anticipatrice, invece, di profonde e tangibili modifiche dell’esistente. Vincenzo Carlomagno: pittore ed architetto, forse viceversa, oppure l’uno e l’altro (artista) assieme, contemporaneamente? Piacerebbe, qui, rivisitare la storia riandando a quelle luminose figure che, nei secoli, furono architetti e pittori e seppero dare prova altissima di singolare talento estetico posto a manipolare lo spazio della tela e quello delle città. Ma le citazioni fin troppo spesso generano enfasi inopportune. Meglio perciò, molto meglio, lasciarle dentro quella consapevolezza – collettiva ma, soprattutto, individuale – che si è soliti definire cultura e non erudizione. Su quanta cultura si fondi la pittura di Carlomagno, danno ampia ed attendibile testimonianza ora l’ampiezza sconfinata dei suoi paesaggi, ora il suo concentrarsi su arguzie narrative che sanno d’orto e di campo. E quel suo campire cieli ed orizzonti intensi, cupi, abbaglianti, distesi, gravidi di colori, incendiati, immobili… E quelle non insistite, eppure efficaci, allusive, reminescenze naturalistiche che creano profondità enormi e danno spazio e prospettiva da qui ad un lontanissimo oltre. A pieno titolo nel solco di una tradizione di cui cinquant’anni orsono Francesco Arcangeli intuì la grandezza – la Provincia padana che disvela le sue ricchezze e la anima antichissima – Vincenzo Carlomagno racconta, senza indulgere nella descrizione e nell’autocompiacimento, tutto il suo stare, partecipe e sensibile, dentro una natura situata sul confine tra realtà e sogno. E se le metafore sono immediatamente percepibili (e ben venga), gli orizzonti sono illimitati.

Carlo Federico Teodoro, Ottobre 1998


i "Lieder" dipinti di Vincenzo Carlomagno.

(...) Quando si parla di produzione artistica figurativa, la nostra mente corre tra due poli opposti. Uno è l’oggetto che ci troviamo davanti, ancora vergine non solo di giudizio, ma d’ogni parametro su cui costruirlo, l’altro è la memoria di quanto già storicizzato, l’accumulo di informazioni sedimentate che costituisce il nostro bagaglio culturale. E’ dal rapporto dialettico tra questi due poli che nasce il nostro giudizio. Questo rapporto è duplice. Innanzi tutto, come si conviene ad una attività che è solamente manuale, artigianale, ed in questo suo limite trova paradossalmente l’unica vera ragione d’essere, la nostra attenzione dovrebbe essere in grado di opporre un potente filtro a tutto ciò che non è fruizione diretta; in breve, a quanto proviene dai mass media. E’ una questione di prospettiva. Il giudizio deve cambiare in funzione della distanza dalla quale giunge il messaggio. E’ l’unico modo per conservare dignità ad un’attività che altrimenti non può che svendersi. L’opera d’arte, ora, è tale solo nel momento in cui permane pura dai canali eterodossi che le procurano l’accesso alla medialità, quando appartiene a una fase in cui la rinuncia ad ogni ambigua ambizione verso posizioni cristallizanti e arbitrarie ( vedi , alla fine di il discutibile concetto di "storia dell’arte") è chiara e sincera. Il banale "esserci", motore dell’infinita sequenza di "grandi eventi", influisce per forza sul giudizio, negativamente. Non è che non auguri il successo a Carlomagno, anzi. Ma l’intimità di un opera sincera non può che essere snaturata dal bataclan di una grande mostra e, alla fine, l’opera stessa si espone al pericolo di essere scavalcata nel giudizio, che viene formulato non a lei ma alla legittimità del bataclan. L’opera di Carlomagno è aliena da questo rischio. Non costituisce ancora occasione mondana, per bei convenevoli. Appare autonoma nel suo essere in sé e nel suo essere relazionata ad una personalità che ho la fortuna di conoscere. Ecco quindi che posso tentare un collegamento, e un giudizio conseguente. Carlomagno è non solo architetto, ma insegna architettura e, non ultimo geometria descrittiva. Questo suo ruolo gli garantisce un profondo, intimo, ben digerito legame con una strutturazione dello spazio priva di tentennamenti. E’ una concezione forte, che disciplina e imbriglia con sicurezza i colori, evitando ogni narcisistica e abusata sbavatura, e che lo pone all’interno di un sistema di riferimento culturale ben preciso. E’ qui che rientra il secondo termine della duplicità nel rapporto dialettico di cui parlavo. Tra la concezione latino-occidentale dell’ "Infant terrible", dell’atto gratuito, della scalata sociale, di cui i vari Rimbaud, Gide, Maupassant costituiscono i paradigmi storici più di quanto ogni pittore sia in grado di fare, e la concezione mitteleuropea e nordica di un’arte che nel rinnovarsi si riallaccia alle tradizioni più profonde, nonché alle istanze sociali più pregnanti della propria cultura, Carlomagno sembra imparentarsi con decisione alla seconda. Mi veniva ostinatamente in mente, osservando le sue opere, la secessione viennese. Personaggi, tra gli altri, come Klimt e Schiele, in cui le forme apparenti di una rivoluzionarietà più o meno facile che attraversa tutta Europa affondano in un substrato aristocratico e popolare insieme, che salta ogni classicità mediterranea e si aggancia direttamente al decorativismo profondo del barocco e del tardo gotico. E sia chiaro che, parlando di decorativismo profondo (termine che calza a pennello per le opere di Carlomagno) non suggerisco un facile ossimoro, ma un forte legame tra un popolo intero e la propria espressione artistica che sublima l’immagine in una bellezza astratta e assoluta, e distilla la sensazione estetico-intellettuale fino alla concettualità pura delle forme musicali più sublimi, dai facili (solo da ascoltarsi) valzer degli Strauss, alle convulse nostalgie senza speranza dei lieder di Mahler. C’è sempre sottesa una geometria implacabile che genera un senso di spazio sterminato o di minuscolo frammento in questa opera, e questa geometria, quasi come un’idea platonica di una verità in sé, lega tutto a sé con la legittimazione del decorativismo. Lega tra loro i colori, le trame delle campiture e gli squilli improvvisi degli accostamenti timbrici con un esito che altrimenti non saprei definire se non musicale. E, se proprio una informalità in queste solide costruzioni la si vuole vedere, sarà quella dei Nolde e Vinnen, non quella di Matisse e Utrillo. Un’ultima domanda che mi pongo: è una musicalità nordica, struggente, quella che vedo in Carlomagno; è un virile trasporto che sa di canto silenzioso, di lieder di Schubert. Perché, dopo tanto tempo che gli lavoro accanto, non avevo scoperto questa indole del personaggio? E’ forse uno dei misteri dell’arte, ma solo di quella che vediamo davvero.

Franco Morselli, Ottobre 1998


Visioni 

Vincenzo Carlomagno è un architetto . Oltre ad esercitare la professione dell'architettura, Carlomagno insegna all'Istituto d'Arte "Venturi" della sua città d'adozione, Modena. Ricordare entrambe le facce della pratica di uno stesso mestiere, svolto con passione oltre che con indubbie competenze, serve a chiamare in causa gli aspetti più razionali di un fare controllato che Vincenzo - da anni mio collega a scuola e amico partecipe di discussioni e vicende - manifesta come la componente più visibile del suo carattere e del suo comportamento esteriore. Nei fatti, capita che l'anima dell'uomo possa intravedersi nel rigore di tavole progettuali tanto quanto nella vita quotidiana. Nelle une infatti l'invenzione di soluzioni formali perfette si alleggerisce nella grazia funzionale dei materiali e dei colori prescelti, nell'altra invece, l'introversione apparente si apre su squarci di passionalità pura e coinvolgente. La sua pratica della pittura non fa che confermare tutto questo. Allievo del Liceo artistico a Roma negli anni Sessanta, Carlomagno ha potuto fare esperienze ed incontri significativi che hanno comunque nutrito, sedimentandosi, ogni suo successivo operare, anche dopo la laurea in architettura, quando Vincenzo ha continuato a frequentare la pittura, pur esponendo solo saltuariamente. La piccola ma scelta selezione di suoi lavori su carta, presentati in questa mostra, dichiara di lui molto più di quanto non appaia a prima vista, quando cioè si resta attratti dal soggetto reiterato dei suoi dipinti (il paesaggio) e dalle declinazioni variate di colori e materie, ultimamente anche impreziosite da tonalità forti e da alcune varianti stilistiche significative. Intanto si deve riaffermare che lavora solo su carta e sempre sul paesaggio. Non più dunque, come in tempi lontani, pittura su tela e bisogno di dichiarazioni e prese di posizione esplicitate attraverso la pittura. Poi, si può osservare che la scelta della dimensione contenuta del foglio (il suo è un lavoro "da tavolo") dice di una volontà di raccoglimento e di pensiero intimistico che il tema prescelto e le modalità appartate della sua espressione - come della sua vita - non contraddicono. Sono proprio i modi e il linguaggio del dipingere che chiariscono la posizione e il sentire attuali di Carlomagno. Il paesaggio come soggetto e la sua percezione restano profondamente romantici; peraltro lo stesso gesto pittorico di Vincenzo, traslato soprattutto nell'ampiezza di cieli gravidi di sentimento e di colore drammatico, trasmettono un senso tuttora panico del mondo. Ma i cieli e la loro immagine sono frenati, anzi necessariamente contenuti, dalla limitatezza spaziale del foglio che condiziona l'azione pittorica.Anche la prescelta successione continua di albe, tramonti, notti, giorni che, con le loro incantevoli condizioni luministico/atmosferiche affascinano il pittore per le variazioni cromatiche, non è ormai più che l'occasione di proiettare, nel paesaggio e dentro la materia dei suoi colori, il sentimento soggettivo dello scorrere eterno del tempo e della vita, perpetuati anche attraverso la pittura.Credo cioè che non ci sia più nulla di visionario nelle visioni di Carlomagno, perché il tempo che egli trasla nelle sequenze dei suoi fogli traduce - fuori da possibili valenze metaforiche - la ritmica continuità del tempo fisico dei fenomeni atmosferici che ordinano e regolano la nostra esistenza, sempre uguali eppure sempre variati e variabili. Proprio il suo guardare (e vedere) la natura mettendo a guida di occhi e sentimenti la ragione lo porta a quella sua pittura, dove sempre compare l'idea e la forma dell'orizzonte, linea rigorosa, quasi limite fra ciò che è conoscibile o evocabile e quello che può solo rappresentarsi per affioramenti e segni che ne attenuano la certezza. Un'indicazione pittorica dunque che si fa scansione netta fra fisica e metafisica, orizzonte concreto eppure mentale (come la geometria) che induce a dimensionare cose, memorie, sentimenti e visioni. Di fatto negli ultimi lavori, mentre nel campo visivo del foglio Carlomagno alza la linea che separa terra e cielo, togliendo spazio ai gesti pittorici del sentimento, egli abbassa lo sguardo sulla materia attraverso la quale traduce in pittura l'apparizione e l'idea del mondo naturale. Attraverso l'attuale ispessimento dell'impasto cromatico (che ottiene con polveri, terre, smalti, colle...), oltretutto impreziosito da tocchi dorati che sono ora baluginii ora nette rigature di luce, credo che Vincenzo dichiari il suo bisogno di stare comunque "con i piedi a terra". Carlomagno interviene cioè a razionalizzare la sua idea e percezione di paesaggio proprio quando sembra maggiormente impreziosirla, perché gli sta a cuore non andare 'sotto' la superficie del mondo (e della pittura), ma guardare ancora - sempre diversamente - la terra e i suoi fenomeni più appariscenti ed eterni. Stupirsi ancora dei giorni e delle notti, delle albe e dei tramonti, delle nuvole, dei cieli e delle tempeste liberatorie, significa - io credo - voler continuare a viverle e a vederle pur conoscendole; significa non rinunciare al sentimento, ma non identificarvisi, e restituirlo per via di memoria e reinvenzione pittorica controllata.

Nadia Raimondi, Aprile 2001


i "paesaggi inquieti" di Vincenzo Carlomagno 

 Mare, terra, cielo… forse, alberi. E nubi che si addensano, si dispongono secondo un disegno a noi sconosciuto, e poi scorrono e si rincorrono in una sorta di danza, come portate via dal vento che piega i fili d’erba e confonde ancora di più la percezione dell’infinito. Oppure spiagge desolate – luoghi affannati, senza memoria, che non conoscono la luce del sole – che si consumano nell’abbraccio irrisolto fra il grigio della sabbia e la linea del cielo, in un desiderio di freddo, di abbandono, di altrove, di sé. E poi giù, nel fondo, a scavare in una terra che non è più nostra, che non ci appartiene, ma che è lì, a testimoniare la finitezza dell’essere. Un altrove di rimozione e di desiderio, lontano da noi e dalle mille incombenze della quotidianità, dal ritmo serrato ed intenso della nostra esistenza: eppure, non è difficile immaginarsi spettatori partecipi ed inconsapevoli di questi paesaggi, vissuti sul filo emotivo di una distanza che ci allontana e ci cattura, costringendoci a perdersi nel nulla, ad inseguire un contatto che svanisce per sempre, proprio mentre sembra ineluttabile. Le "guaches" di Vincenzo Carlomagno sono una parafrasi dell’astrazione: individuano un percorso narrativo fatto di assenze, di esclusioni, di palpiti che hanno la forza di vivere senza che ci sia un uomo con loro: ma si accompagnano ad una fredda musicalità, ricercata come una sorta di rifugio nella mistica dispersione dell’allontanamento. Sono percorsi che tendono all’assoluto, immagini non necessariamente legate ad un luogo specifico, nelle quali non si deve andare alla ricerca di somiglianze con altri luoghi già visti, o già vissuti, o abituali abitatori delle nostre fantasie: sono, piuttosto, i confini della nostra esistenza, tensioni emotive che si colorano di azzurri, o di verdi, o di altro: sono l’attraversamento di quella banalità opprimente che è l’incedere ossessivo del giorno, della notte, e poi ancora il giorno… Non c’è il sole, mancano le tenebre, nei paesaggi inquieti di Vincenzo Carlomagno : non ci sono storie da raccontare fino a notte ai bambini che vogliono godere del fuoco, delle castagne arrosto, delle parole calde e fascinose che ti accompagnano ai limiti fisici dell’oblio. C’è un viottolo, però accidentato, pieno di sassi, di asperità, che ti conduce all’insopprimibile desiderio dell’a-spazialità e dell’a-temporalità: e potrai finalmente navigare nelle ferme acque dell’infinito.

Giorgio Berchicci, Novembre 1998


Presentazione per la raccolta di poesie: "CON GLI OCCHI SOCCHIUSI"

Ogni passo è un viaggio

Una stupefacente coerenza dovrebbe essere un ossimoro ma, in questo mondo dove l’incoerenza è regola, non lo è. Una inimmaginabile prevedibilità dovrebbe esserlo ancor di più ma, in un mondo di spregiudicate banalità e di ovvie trasgressioni risulta, quasi ossimoro nell’ossimoro, imprevedibile davvero. Nel senso che, quando Carlomagno mi ha mostrato i suoi ultimi lavori, mi ha spiazzato, anche se, ripensandoci poi, mi dico e mi ridico che avevo previsto tutto. Ho un testimone d’eccezione: Carlomagno stesso. Glielo avevo detto parlando dei suoi quadri, di quelle sue superfici dove continuamente, ostinatamente, il segno ed il colore intessono fitti dialoghi tra ciò che abbiamo più vicino e l’infinito, tra l’io e il mondo, tra l’anima e l’universo ( e tutto ci lascia attoniti, come se per la prima volta vedessimo ciò che abbiamo sempre visto, o sapessimo solo ora ciò che da sempre sapevamo). Gli avevo detto: "sei un poeta …". E credevo di aver detto tutto. E allora Carlomagno mi ha stupito. Mi ha donato alcuni di quei suoi preziosi libricini che stampa col computer (tre, per l’esattezza, almeno fino adesso) pieni di poesie "vere", vere in senso stretto, fatte di lettere invece che di linee, di versi invece che di macchie di colore, di ritmi invece che partizioni di carta, di parole invece che di forme. Ha cambiato filone storico, tecnicamente parlando. È saltato da un manuale all’altro: da quello di storia dell’arte a quello di storia della letteratura, costringendo noi che lo seguiamo a una elasticità mentale non priva di pericoli. Ecco che infatti, di fronte a queste nuove righe, a questa nuova impostazione della pagina, la mente non può più permettersi di correre alla Secession, a un goticheggiante espressionismo, o all’immenso Turner. Carlomagno la costringe a brancolare in altri campi, a consultare altri mondi, a sfogliare altri manuali alla ricerca di un approdo dove, ormeggiato ciò che ci sembra di aver colto, ospitati i libricini in un modo spirituale già consolidato nella storia, formulate un paio di dotte citazioni, sotto sotto speriamo di restarcene tranquilli. … Fosse tutto qui, il compito non sarebbe dei più ardui. I poeti dei paesaggi dell’anima, di quando cioè il paesaggio si fa anima e l’anima paesaggio, li conosciamo tutti. I momenti in cui compaiono una roccia, una casa, un vigneto, il mare ( sordo, indifferente, acqua che non disseta …) continuano a evocare in noi, con un brivido improvviso e garantito, tutta la precarietà del nostro essere. E i nomi si dipanano come in una collana di mestizia. Montale, soprattutto. Eliot, direi, ovviamente quello della terra desolata. Ma in Carlomagno il paesaggio si fa quadro, e i rimandi si complicano, e tutto si frantuma e si scombussola. Tentiamo con Seferis, il greco: "… e più su / lo stesso paesaggio copiato ricomincia …". Il copiato, il replicabile, presuppone il quadro, e copiato e quadro insieme presuppongono la tecnica pittorica. È il campo di Carlomagno. Forse solo Pasolini vi si è inoltrato con altrettanta sensibilità. Eccolo, ad esempio, quando ci porta in Versilia, una Versilia che " … i tersi stucchi, / le tarsie lievi della sua pasquale / campagna interamente umana, / espone, incupita sul Cinquale, / dipanata sotto le torride Apuane, / i blu vitri sul rosa …". E poco oltre così ci dipinge la Riviera: "… molle, / erta, dove il sole lotta con la brezza / a dar suprema soavità agli olii / del mare …". Compito esaurito, allora? Abbiamo già trovato, quindi, il punto del secondo manuale ove inserire Carlomagno? Non credo … C’è ancora qualcosa da aggiungere, un tassello manca. Qualcosa che sfugge alla retorica un po’ pedante di ogni presentazione … La quiddità che non si lascia incasellare. Ma tentare di parlarne è rischiare di cadere nel banale, è rischiare di appiattire i complicati labirinti di rimandi con cui Carlomagno ci accompagna nel suo viaggio. È un viaggio, forse, il quid. Ma non è il viaggio di chiunque: è il viaggio di un pittore. È l’andata e il ritorno tra linee e la parola, tra la frase e il colore, è il movimento che chiude un cerchio che mai avrei pensato potesse essere chiuso. Perché dentro quel cerchio ci sta tutto, tutto viene percorso da quel viaggio. La poesia e il quadro sintetizzano gli estremi delle cose, e tra gli opposti Carlomagno vede distendersi, e ci mostra, l’universo intero. C’è il presente e il passato, il ciottolo e la pianura, la sinapsi e il sistema, il pollice e l’orizzonte. E il mezzo si fa colore, e il colore si spande e ci trasporta ovunque, delicato e preciso come una larga pennellata di acquarello. Carlomagno descrive minutamente tutto descrivendo, sta qui la sua genialità, il momento della descrizione stessa. E così ci disorienta, e ci sorprende. " La fine di un racconto" dice "è sempre confine / tra tagli di pensieri / e limiti di fogli". Forse l’unità di spazio e tempo che i fisici predicano da un secolo è tutta qui. Qui è il tempo vissuto e quello delle relazioni tra le cose. È il tempo della poesia che tutto unifica. Qui è ( mi sia permessa un’ultima citazione, la più grossa ) "… legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna … ". Ed è qui, infine, l’unità dei due manuali, l’unità delle arti, quindi, e l’unità dell’uomo. Unità di ritorno, ciclo che si chiude. Nel viaggio di Carlomagno ogni passo è un viaggio, e il viaggio altro non è che un lungo passo. Ma per Carlomagno, penso, il viaggio non finisce qui. La casa sul mare non è ancora stata raggiunta. Nessuna anima, credo, è definitivamente salpata per l’eterno e lui ha ancora la disponibilità a raccontare. Nella instancabile ciclicità del suo vagabondare ha ancora troppi muri scrostati da decifrare, e le periferie infinite sono ancora solcate da troppi fossi dimenticati tra le rigide inquadrature del cemento. E poi il cielo … e la luce … E’ tutto così instabile … Come si può pensare di arrivare a un punto fermo? Ha ancora molto da osservare il cuore-occhio di Carlomagno. Buon per noi, che volentieri continueremo a farci accompagnare attraverso i suoi fogli scritti o colorati, noi che, grazie a lui, qualcosa abbiamo già raggiunto o ricordato. (O, pigri spettatori di una parvenza opaca, non avremmo preferito, forse, restarcene sprofondati nel comodo alibi della realtà impossibile? Per quanto tempo ancora l’eterno artista che nutre quei manuali infierirà col suo " perfido sorriso" sopra al brumoso torpore che ci avvolge?).

Franco Morselli, febbraio 2008.


i paesaggi interiori

Da anni seguo con attenta ammirazione la pittura di Vincenzo Carlomagno e, ogni volta che ho modo di vedere i suoi lavori, trovo un continuo miglioramento nella materia pittorica delle sue opere, una conquista sempre più sicura di stile, un approfondimento di analisi e una raggiunta sintesi che non ha proceduto a sbalzi per suggerimenti esterni, ma per una graduale decantazione del proprio linguaggio, ora aspro e violento, ora commosso con giusta misura e con accenti di delicatezza. Il mondo pittorico di Carlomagno è assai vario, ed egli non ha bisogno di prendere in prestito formule altrui, come tanto spesso si vede oggi fare anche da parte di artisti non più giovani. Le figure, le nature morte, i paesaggi (sempre uguali eppure sempre variati e variabili ), le composizioni di fantasia che appaiono nei suoi dipinti hanno fatto parte della sua vita, sono stati visti, contemplati, rivissuti da lui. La conquista del proprio stile non è avvenuta in lui acriticamente, ma per quel misterioso senso di cultura istintiva, che hanno gli artisti davvero dotati. Essi procedono infatti con gusto profondo nella loro scelta, ed è quello che li salva da diffusissimo cattivo gusto odierno che s’abbandona alla deformazione patologica. La materia costitutiva della sua pittura, giovandosi della sua lunga esperienza, è ora d’una decantata purezza armonica e d’una forza espressiva veramente rare. Pochi sanno oggi, come lui, interpretare la Natura, raccontarla in sospesa meditazione con colori squillanti di luce, con rattenuta parsimonia di gesto, di segno, con l’asprezza – quasi – della materia ridotta all’essenziale, con sensibilità così attenta e così accuratamente poetica. E, con tutto questo, Carlomagno non è un pittore puramente naturalista, ma in possesso di quella grazia che sa far proprie le suggestioni migliori provenienti dalle tendenze più vive dell’arte odierna, non escluso l’astrattismo geometrico e quello espressionistico. Questo artista, così preso dalla sua "idea fissa" (nel senso dato a queste parole da Valèry), ha scavato in se stesso un mondo semplice, alto e vario, che egli arricchisce vieppiù col passare degli anni proprio per le pure qualità della sua pittura, la quale conta in termini lirici sulle sue tele. Egli ha saputo cogliere dal mondo esterno, passandolo attraverso il suo travaglio spirituale, quelle verità essenziali che fanno delle sue opere altrettante poesie visive per virtù degli accordi e dei contrasti tra le tonalità e fra i colori caldi e quelli freddi, distribuiti con felice invenzione. Si veda come in questi lavori recenti (tutti su carta) esso si sia ancor più affinato nella sua funzione trasfiguratrice, acquistando una sonorità e una illuminazione interiore capaci di renderlo favoloso. Nonostante la complessità compositiva, i lavori mostrano un sapiente equilibrio strutturale e i colori, per alcuni versi, mi ricordano alcune straordinarie intuizioni coloristiche di H. Matisse; si ponga mente alla qualità del rosso iconico che ritorna in più di un dipinto, invadendo lo spazio e le cose: un rosso che verrebbe da definire orientale nel contesto di una tensione spiritualizzante relativamente nuova nella storia del nostro pittore, se non fosse riconducibile, con maggiore probabilità, ad una memoria della migliore tradizione paesistica della scuola romana che Carlomagno conosce molto bene. Sempre attento a quanto avviene nel mondo della cultura, Vincenzo Carlomagno ha ritenuto dal cubismo e dalla metafisica la partitura architettura, i piani ribaltati, le linee prospettiche fuggenti verso l’interno del quadro, le quinte e le spicchiature geometriche di luce sfolgorante e di ombra densa che sommuovono la fisicità del tema imprimendole movimento in modi inattesi e spesso drammatici, tra improvvise accensioni di colore e perentorie dislocazioni degli elementi del racconto, che perciò si fa sorprendente e vario nell’unità organica di una posa robusta e sanguigna. Nei lavori recenti, c’è una struttura compositiva che è tutta sua: quei segni veloci (articolati energicamente), quelle parvenze, quelle larve ( così compresse nello spazio) sembrano voler denunciare i dubbi, l’insorgere di interrogativi sul proprio status e sul proprio destino, i vuoti, la nostalgia delle cose, la testimonianza di un’ansia esistenziale; quei fiori che sembrano messi a repentaglio l’uno contro l’altro, hanno la durezza e la crudeltà del ferro, non vogliono mai allettarci promuovendo i nostri svagati semi-pensieri sulle piacevolezze del creato, ma imporsi suscitando stupore e sorpresa, come occasioni, quali effettivamente sono, di una salda presa di possesso del reale, propria dell’intero cammino del pittore. La natura, dopo essersi lei stessa ridotta a simbolo, è entrata a far parte degli oggetti. Le figure diventano presenze intriganti, inquietanti metafore dell’assenza; in paesaggio con figura la maschera androgena dell’uomo senza tempo diventa presenza metafisica nella natura, l’albero della vita che solca la mano raccontandone il destino. Lo svolgimento del segno (o della pennellata) è rapido, la visione di Carlomagno diventa un’emozione cromatica e costruttiva forte, con vibrazioni squillanti anche dove la materia risulta sfatta o in procinto di decomporsi, di disgregarsi; il racconto diventa fiabesco, la decantazione della carica sentimentale ci comunica un senso di calma estatica, di ripiegamento quasi religioso sulle viste della natura. Nelle sue composizioni ora, ogni oggetto sentito è trascritto come reperto archeologico di uno scavo interiore e di una illuminazione mnestica. Ma è anche vero che quel suo cercare ‘dentro’ la materia colore fa sì, che la superficie del dipingere diventi direttamente spazio psichico, di evocazione, poetica soglia introspettiva, periscopio verso le stanze del labirinto dove i sensi interni ricompongono e scompongono la materia dei sensi esterni, delle impressioni, delle sensazioni, dei ricordi, delle voci, fondendola ai sedimenti profondi degli strati della memoria collettiva, ancestrale. Dall’insieme di questi ultimi lavori, si manifesta con varietà di argomenti il mondo di Vincenzo Carlomagno, che non ripete qualche clichè conquistato nelle passate esperienze, ma che vivendo a contatto con diversi aspetti della vita li approfondisce e ne sa dare l’essenziale. Il rinnovarsi continuo del suo stile, come un fenomeno della Natura, avviene su temi antichi come il mondo, ed è (sempre) un rinnovamento non di maniera, ma dovuto al suo amore per gli spettacoli grandi e esili del Creato, amore che si tramuta in una carica di vitalità pittorica, esprimentesi con carattere proprio e con sintesi d’un’attualità colma di echi poetici e di durata.

Matteo Ghiotti, aprile 2009.